di Guido D’Agostino (Il Mattino)
NOLA- Tanti i casi dolorosi e tragici che hanno funestato paesi, città e genti delle regioni meridionali, e dunque della Campania, subito dopo reso noto l’armistizio, gestito e formalizzato nel peggiore dei modi dall’Italia, dell’8 settembre 1943. Un’intera nazione, peraltro, lasciata letteralmente abbandonata a se stessa dai poteri pubblici, a ogni livello, stretto tra i Tedeschi – quelli già tra noi e quelli sopravvenuti in forze a fronteggiare gli eventi – e gli Alleati, in generosa, ma lenta risalita dal fondo della Penisola e comunque sbarcati a Salerno il giorno seguente. In questo quadro, la vicenda dell’eccidio di Nola, una città piccola ma dalle grandi tradizioni storiche, culturali e civili, nonché, dal secolo XIX almeno, importante presidio militare. I fatti, nella loro cruda essenzialità, sono stati rievocati, una volta ancora, nella prefazione di Roberto Ormanni al libro di Alberto Liguoro, figlio di una delle vittime, autore di una commossa e partecipata «cronaca dall’eccidio» (come è intitolato il libro), oltre che «dell’eccidio». Premessa la drammaticità della situazione generale, notati gli equivoci e le ambiguità del testo stesso dell’annuncio dell’armistizio, il prefatore così sintetizza: «Il 10 settembre una colonna tedesca, a Nola, ingiunge agli ufficiali italiani di consegnare le armi. Loro rifiutano, ne nasce un litigio nel corso del quale un ufficiale tedesco, rimasto ignoto, viene ucciso. Basta a provocare la prima rappresaglia dell’isterico esercito di Hitler, contro i propri alleati dopo il pasticciaccio dell’armistizio. Il giorno seguente i tedeschi sparano a un ufficiale italiano che, sventolando bandiera bianca, è stato inviato a trattare un accordo e procedono a scegliere altri dieci da fucilare seduta stante per vendicare la morte del loro soldato…Undici soldati italiani, vittime non della guerra ma dell’armistizio, per aver difeso la propria dignità e, insieme, quella di un’Italia che forse non lo meritava davvero…». Ma questo, che rappresenta il cuore della vicenda su cui è impiantato il libro, non è che il primo atto del dramma, dal momento che una ventina di giorni più tardi quello che in altre e più circostanziate rievocazioni viene indicato come «un pugno di ardimentosi cittadini di Nola», o, anche, come gruppi di studenti e antifascisti guidati da un sottotenente e un sacerdote, attaccano la stessa caserma (Principe Amedeo) ormai in mani germaniche per procurarsi armi e munizioni e accendere una vigorosa lotta di popolo contro gli occupanti tedeschi. Siamo tra l’uno e il due di ottobre, mentre a Napoli stanno per concludersi vittoriosamente le Quattro Giornate: in entrambi i casi con lo sgombero dei tedeschi e l’arrivo degli anglo-americani. In pratica – come pure è stato detto da molti di quanti hanno ricordato e commemorato negli anni l’episodio – «di fronte allo sfaldamento dell’esercito e capi, i pochi civili antifascisti nolani che presero le armi contro i tedeschi, seppero istintivamente scegliere la via dell’onore». Evidentemente, una pagina di storia della propria comunità vissuta, ma soprattutto ricordata e trasmessa a chi è venuto dopo, in maniera non proprio univoca. Un caso, tuttavia, più che di mancata memoria «condivisa», di memoria emulativa-competitiva, tra la componente militare e quella della società civile, una rivendicazione di prestigio e di ruolo da parte di due soggetti collettivi, non contrapposti quanto ai fini ultimi perseguiti, ma pure trovatisi a reagire in circostanze difficilissime, ciascuno secondo propri codici di comportamento e propri valori di riferimento. Si può quindi capire la diversità di posizione tra chi trova che si è fatto ciò che era giusto fare da parte dei militari e chi esalta il valore dell’eccidio in quanto innesca la decisiva partecipazione dei civili, i quali avrebbero testimoniato anche come il fascismo non fosse riuscito a radicarsi in Nola dove invece era sopravvissuta la parte libera e coraggiosa dell’anima della città che ne salvò quindi la dignità appena se ne diede l’occasione. Tuttavia, e può sembrare un paradosso, questa memoria oppositiva-emulativa ha finito con rendere più forti le ragioni stesse e più proprie del ricordare, che non è operazione che riguarda il passato, ma piuttosto un diritto e un segnale di identità di un popolo, un nuovo «bene comune». Ha ragione Ian Chambers a notare che «la memoria non è un oggetto perduto, avvolto e nascosto nelle pagine polverose del passato, ma piuttosto il motore di pratiche tutte contemporanee, che a loro volta promuovono futuri». L’auspicio, a questo punto, è che a Nola si prosegua in questa direzione e si lavori insieme per arrivare alla sostanziale condivisione del dato rappresentato dal risultato dell’azione degli uni e degli altri: avere recuperato, per tutti, libertà, dignità, democrazia.