I consumi interni ripartono, seppure lentamente, ma la crisi del commercio non si arresta. La desertificazione di attività commerciali nei centri urbani continua: in Italia ci sono oltre 627mila locali commerciali sfitti per mancanza di un’impresa che vi operi all’interno, quasi il 25% del totale disponibile, con valori percentuali che in alcune periferie sfiorano il 40%. A stimarlo è Confesercenti, sulla base delle rilevazioni delle imprese di intermediazione immobiliare. Nei primi 8 mesi del 2015 sono sparite, tra negozi e pubblici esercizi, circa 30 imprese al giorno. E dal 2012 ad oggi sono oltre 300mila quelle che hanno cessato l’attività: “Un enorme numero di unità immobiliari che si sono liberate sul mercato in un periodo di tempo ridotto, cui vanno sommati i locali lasciati vuoti dalle imprese plurinegozio che, con il perdurare della crisi, hanno ridotto il numero di punti vendita”, secondo Confesercenti. Il fenomeno colpisce il territorio con una diffusione a macchia di leopardo, ma è più evidente nei piccoli centri e nelle zone periferiche delle grandi città, dove ormai si trovano serrande calate anche nei centri commerciali. Il più alto numero di negozi sfitti si trova nelle regioni a maggiore densità di locali ad uso commerciale: Lombardia, (oltre 82mila) Campania (quasi 70mila) e Lazio (circa 62mila). “La crisi economica, le liberalizzazioni e gli affitti che, soprattutto nelle aree di pregio commerciale, sono sempre più elevati, stanno svuotando le città di negozi”, spiega il presidente nazionale di Confesercenti Massimo Vivoli,sottolineando che “i segnali della resa delle botteghe sono ben visibili nelle migliaia di saracinesche abbassate che si affacciano su strade che erano il regno dello shopping, ma che ora sono sempre più deserte e sempre meno sicure”. Per agevolare il ripopolamento delle botteghe, Confesercenti propone l’inserimento nella prossima legge di stabilità di un meccanismo combinato per riportare i negozi nelle città: una norma che permetta di introdurre canoni concordati e cedolare secca anche per gli affitti di locali commerciali. Un sistema già previsto per le locazioni abitative e che potrebbe essere declinato anche per il commercio attraverso un accordo tra proprietari immobiliari, rappresentanti delle imprese commerciali e amministrazioni territoriali competenti. “In questo modo si favorirebbe, in un momento di ripartenza dell’economia, la ripresa del mercato immobiliare, dando allo stesso tempo – secondo Confesercenti – nuovo impulso alla rinascita del commercio urbano e delle botteghe. Si creerebbe anche valore per tutti i soggetti interessati: il proprietario dell’immobile godrebbe di un indubbio beneficio fiscale, le attività commerciali corrisponderebbero un canone ridotto. E per l’amministrazione comunale sarebbe un doppio investimento: sociale, con il ripopolamento delle aree oramai desertificate delle città, e fiscale”. Secondo le elaborazioni dell’ufficio economico dell’associazione, con l’introduzione di un canone concordato e cedolare secca potrebbero rinascere, nell’arco di due anni, circa 190mila negozi. Per il fisco centrale e locale – tra gettito Irpef, Tari e Irap pagate dalle imprese – sarebbe un introito aggiuntivo di 1,5 miliardi di euro”. (adnkronos)