di Bianca Bianco
Piangere mentre si leggono le ultime venti pagine di un libro. Piangere a dirotto, senza consolazione, come dinanzi un lutto, è un segnale incoraggiante. Il libro che stai leggendo ti sta lasciando qualcosa. Mi è accaduto sul finale di “Stoner”, libro cult che ti trascina lungo le sue 350 pagine o quasi e ti lascia da solo dinanzi al patema che provi nell’abbandonare per sempre il suo protagonista. Un’esperienza toccante, illuminante, unica.
La fortuna di “Stoner”, romanzo scritto nel 1965 da John Edward Williams senza alcun riscontro editoriale ma diventato un caso letterario negli Stati Uniti già nel 2003 per poi esplodere in Italia nel 2012, è il suo essere il racconto straordinario di una vita quasi normale. Una vita sorprendentemente piatta, grigia, movimentata da piccole e grandi sventure e voltafaccia del destino (di quelle che capitano ad ognuno di noi), trasformata però dallo scrittore in una intensa epopea privata.
Stoner è il cognome del protagonista, che si chiama William ma che per quasi tutto il libro, tranne che da poche persone, viene identificato col nome di famiglia. Una scelta che già spiega l’identità del personaggio. Un’identità appiattita, lungo molte pagine, sul formalismo e la rigidità. Sotto cui, è evidente al lettore più accorto, riluce una brace di tensioni e velleità che restano sotto la cenere di un’esistenza quasi inerte. Figlio di agricoltori poverissimi e estranei, a 20 anni si sottrae dal destino impresso sul volto brunito dal sole del padre e si iscrive alla facoltà di Agraria della giovane università del Missouri. E’ un ragazzo di campagna che a piedi raggiunge quell’edificio monumentale. Il suo futuro sembra preordinato: tornerà alla fattoria ed alla terra. Ma la prima scintilla dalla brace del suo io altrimenti apatico è la lezione complementare di Letteratura inglese. Folgorato dalle domande del docente, decide di dare una svolta alla sua carriera e laurearsi in Letteratura. Nello studio degli autori medievali e rinascimentali profonderà l’intenso sforzo che metteva nell’arare i campi per aiutare i suoi, raggiungerà la laurea e poi diventerà docente in quello stesso Ateneo. Un traguardo che sembra riscattare un’infanzia di durezza. Ma non è così. Stoner conosce Edith, ragazza timida quasi fino all’autismo, e decide di sposarla salvo poi, pochi giorni dopo la benedizione dei genitori di lei, rendersi conto dell’errore fatto decidendo un matrimonio votato al fallimento. Edith è depressa e maligna, e depressa e maligna diventa il loro menage familiare risvegliato solo dalla nascita della dolce Grace. Il matrimonio è un fallimento, la carriera universitaria corrotta dalla perfidia di un collega. La deriva pessimista del libro si risolleva solo con la seconda scintilla, l’incontro con Kathrine, insegnante che diventerà amante del maturo Stoner, ormai 43enne. Un amore passionale (finalmente!), intenso, vissuto senza i vincoli della clandestinità ma destinato a morire: siamo nei puritani anni Trenta della puritana America. Dalla fine dell’idillio con la collega, il romanzo continua a raccontare la quotidianità del personaggio che stavolta, ferito dalla fine della sua unica storia d’amore e bruciato dalla maturità, si apre alle riflessioni sulla vita, sul suo significato, sui fallimenti. Fallimenti che Stoner rivede nella propria esistenza, ma anche in quella di chi gli è intimamente vicino.
Forse la lettura della trama, che ho ovviamente sintetizzato, non incoraggerà. Sembra un libro amaro e malinconico, ed in effetti lo è. Ma nasconde una forza incredibile nella capacità di far empatizzare il lettore con il protagonista. E soprattutto riesce a rendere imponente una trama in apparenza esile. Con uno stile chiarissimo, senza fronzoli, pacato eppure prorompente, Williams ti tiene incollato alle pagine. Tu sei lì, a fare il tifo per Stoner, a chiedergli di urlare-reagire-di cambiare la sua vita. E assisti invece alla sua inerzia fatalista ed agli sgambetti del destino e della ferocia altrui. Alla fine non puoi non piangere per lui.