Il reportage del direttore de ilgiornalelocale.it pubblicato sulle prime pagine di Mattino e Messaggero
di Bianca Bianco
MONTEFORTE IRPINO- C’è un’immagine che racconta, nella drammatica fissità di un fotogramma, la tragedia che domenica sera ha sconvolto l’Italia. Il corpo sventrato del pullman di pellegrini precipitato dal viadotto del km 33 della Napoli-Bari, il vuoto di quei sediolini esibiti ai flash ed allo sguardo angosciato del mondo.
Un vuoto carico però di vita, di storie da raccontare, ancora intriso del calore e della spensieratezza di quanti non sapevano di viaggiare su quella che si è trasformata nella loro bara. Quel volo di trenta metri verso la morte sembra avere congelato gli ultimi attimi di vita della comitiva reduce da una gita; le lamiere contorte, le assenze, l’abisso disegnato in quei posti vacanti, cristallizzano gli estremi istanti di esistenze normali, fino ad allora ordinarie ed oggi testimonianze luttuose di un destino implacabile. Li immaginiamo occupati, quei sediolini. Da Procolo, da Simona, da Olga, o dalla piccola Arianna che cerca in ospedale la sua nonna. Dai pellegrini che hanno concluso nel vallone Gaudi, sotto il viadotto che porta il nome di Acqualonga come il torrente che un tempo scorreva e segnava il confine tra Monteforte e Taurano, il loro viaggio di svago e di fede.
La tappezzeria chiara appare come l’ultimo segnale di normalità. Perché lo schianto ha scomposto ogni cosa, i corpi ed anche i poveri resti interni nella carcassa dell’autobus aperta a metà dai vigili del fuoco in cerca di sopravvissuti nella notte più lunga per l’Irpinia.
«Gli oggetti sono cose che non dovrebbero commuovere, perché non sono vive» scriveva Sartre ne «La nausea». Ma lo aggiungeva lui stesso: «Eppure mi commuovono, è insopportabile». Ed è davvero insopportabile essere di nuovo qui, stavolta sotto il viadotto della tragedia, a catalogare con gli occhi e le fotocamere questa straziante serie di oggetti, di cose appartenute a qualcuno, di piccoli simboli del quotidiano, sparsi ancora sulla terra e tra i rovi, calpestati dai giornalisti delle tv, mostrati all’occhio morboso di chi viene a vedere «dove è caduto il pullman» ed a scattare foto per la propria personale rassegna dell’orrore a due passi da casa. È insopportabile osservare questa natura che resiste al cemento, una natura a cui si sono aggrappati gli ultimi brandelli di normalità delle vittime.
Acqualonga il giorno dopo per noi è una storia diversa da raccontare. Siamo sul luogo in cui l’autobus è precipitato. Non c’è più asfalto rovente ma terra, erba e la striscia polverosa della strada provinciale che collega Monteforte al Vallo di Lauro. Non ci sono lampi blu e fari alla ricerca di superstiti, ma il sole di luglio che scotta ed illumina tutto, si rifrange su ogni superficie, mostra ogni cosa e rende inutile ogni domanda. È tutto qui sotto i nostri occhi, anche se i cadaveri sono pianti altrove e del veicolo rimane ben poco. Sotto i nostri occhi c’è il racconto, il lutto, ma anche la speranza. C’è il racconto del disastro, rappresentato dal cornicione in cemento sfondato come carta velina e precipitato nel vallone. C’è una larga macchia di sangue su quel resto del guardrail, ed è forse l’unico particolare davvero macabro, il timbro della morte, in questo posto. C’è il racconto del viaggio: i sediolini vuoti ed accartocciati, i resti del cruscotto, abiti persi dalle valigie dei pellegrini, i depliant turistici in una lingua straniera forse ricordo di un altro viaggio più lungo e più fortunato di questo. C’è il racconto della fede che ha mosso fino a Pietralcina la comitiva di amici di Pozzuoli: l’immagine di una Madonna che stringe il suo bambino, è una icona ortodossa dai colori vivaci che spicca nonostante sia lì coperta dall’erba.
C’è un crocifisso di legno, la riproduzione del crocifisso di San Damiano che, scrivono i libri d’arte, “contiene la storia della morte, risurrezione e ascensione in gloria”. E’ una metafora troppo semplice, troppo dolorosa. Qualcuno si è accorto di quel Cristo solitario appartenuto ad uno dei fedeli in viaggio ed ha appoggiato un piccolo bouquet di rose. Un gesto di devozione sul luogo in cui molti si sono chiesti dove fosse finito Dio l’altra sera.
Ad Acqualonga il giorno dopo c’è il racconto del lutto, tutto giace inerte sotto il sole, anche gli alberi sono squarciati e sembrano sofferenti sotto il peso di questa vicenda, ma c’è pure quello della speranza. Eccola la nostra speranza, è quel cappellino rosa che qualche vigile del fuoco ha teneramente appoggiato su un piccolo palo, proprio sopra l’icona della Madonna con Gesù. Dopo una notte di lacrime e strazio, ci aggrappiamo tutti con lo sguardo a quella paglietta da bambina volata giù dall’autostrada senza macchiarsi di sangue e di terra. Sembra messa lì dalla piccola Arianna per gioco, poco prima di farsi prendere tra le braccia dei suoi soccorritori.
Poco più avanti un giocattolo ancora nella sua confezione, è un cagnolino di peluche con cui nessun bambino aveva ancora giocato. Qualcuno aspettava di aprirlo a casa col permesso dei genitori, chissà. Ora è un oggetto, un reperto da catalogare, un emblema delle piccole vite stravolte. Il dilaniante elenco delle cose perdute può finire qui, questo fazzoletto di terra contiene fin troppe storie. Ci guardiamo intorno e ci accorgiamo che fuori dal perimetro della tragedia la vita si ferma a guardare e poi va avanti. Non mancano i curiosi, qualcuno ha portato dei bambini inconsapevoli e distratti, qualcun altro scatta fotografie con lo smartphone, alcuni dedicano un pensiero o una lacrima e poi vanno via. Gli unici a restare sono i giornalisti, italiani e stranieri, con telecamere fisse sotto il viadotto dell’orrore, cotti dal sole e da una lunga attesa. Il crossodromo distante pochi metri oggi è chiuso. Non c’è voglia di giocare, oggi Acqualonga è un cimitero.